John Barleycorn, la chicca di Gorla tra birra, jazz e studio di registrazione

Siamo stati al John Barleycorn, il nuovo locale di Milano connesso allo studio Orlando Music, con Folco Orselli e le jam session del lunedì sera

Siamo tornati al John Barleycorn di Gorla, a meno di un mese dalla sua inaugurazione ufficiale, per berci una birra, sentire dal vivo Folco Orselli  e capire come funziona l’originale idea della “sincronizzazione” con l’adiacente studio di registrazione.

Il John Barleycorn

Come forse avrà capito chi ci segue da qualche articolo, ci piacciono i posti dove si suona musica dal vivo. Locali di tutti i tipi, colori, odori, altitudini, orientamenti, tribù, età, temperature, pressioni, metrature, cubature. E se hanno qualcosa di unico, ci piacciono ancora di più.

Il John Barleycorn ha, effettivamente, una caratteristica che lo differenzia da qualsiasi altra “music venue” io conosca, a Milano e non.

Arredamento minimale post-industriale; luci soffuse, da pendenti stile lampara; un grosso tavolo comune, oltre ad una serie di tavoli classici e prenotabili, favorisce la socialità tra avventori.

Una vera cucina, oltre che birrificio di qualità.
Frequentazione: la più varia immaginabile, dai 3 (giuro!) ai 60 anni; atmosfera piacevole da quartiere-come-era-una-volta, dove si sta tra amici.

E poi: quel vetro misterioso, che non è uno specchio segreto per le candid camera, ma interfaccia la sala ristorante-bar con… lo studio di registrazione adiacente! Questo, all’occorrenza, funge da estensione del palco, permettendo ai musicisti di suonare anche al di là del vetro, mentre i segnali audio da entrambe gli ambienti vengono mixati e diffusi in sala, e un sistema di telecamere e video-proiezione permette al pubblico di vedere cosa succede in studio.

Questa è la chicca, lo ”unique selling point” del John Barleycorn, come direbbero gli inglesi che di marketing se ne intendono.

E io che sono un gran nerd, con una passione smisurata per tutto ciò che è il dietro le quinte della produzione musicale, le tecniche di registrazione, gli strumenti …, ho già estorto un mezzo appuntamento per lunedì per visitare la parte studio, che oggi purtroppo è inattiva e chiusa.

Si, perché il concerto in programma questa sera è del tipo “one man band”, quindi quel poco che serve sta tutto sul palco: un piano verticale, una chitarra, un microfono, e un Folco Orselli.

Folco Orselli in the heart of Saturday night

Basco in testa alla Tom Waits da giovane. Voce invece un po’ alla… Tom Waits da giovane (quello di “The Heart of Saturday Night” e di “Small Change” per intenderci).

Oh, gente, non sto mica dicendo che è un plagio; nella musica pop in fondo nulla più si crea, almeno dagli anni ’70, ma tutto si trasforma. E poi vorrei essere io paragonato a Tom Waits!

E comunque Folco Orselli canta in Italiano. Scrive canzoni su Milano, sui luoghi e le persone di tutta Milano, soprattutto di quella meno in vista. E lo fa con spirito decisamente blues, accentuato dalla veste acustica e minimale di questa esibizione. L’abbinata Milano-blues è abbastanza inedita, e azzeccata.

Può Milano essere blues? Altroché!

Basta farsi qualche giro notturno in bicicletta, magari quando c’è un po’ di umidità, girovagando a caso tra i quartieri, e guardarsi attorno per scoprire il lato blues di Milano (ci vuole una grande città ex-industriale, di pianura, per generare certe atmosfere e certi personaggi…)-

Peccato solo che il rumore di fondo dei banchettanti, abbastanza elevato, tolga qualcosa all’intimità della performance “unplugged” di Folco Orselli. D’altra parte è sabato sera, la gente ha voglia di ciciarà.

Però forse basterebbe qualche pannello a soffitto per migliorare l’acustica, come quelli montati nelle sale del contiguo….

…studio di registrazione Orlando Music

È lunedì e come promesso mi ri-materializzo alla porta del JB, dove mi viene presentato Stefano Spina: ideatore, progettista e fonico dello studio di registrazione collegato al JB.

Stefano, comprendendo la mia passione per l’argomento, si offre con grande gentilezza di farmi fare un tour guidato della sua creatura.

Investendo coraggiosamente denaro, competenze e sudore della propria fronte, ha costruito uno studio con trattamenti, impianti e strumentazione di livello professionale (compresi un pianoforte a coda, un bellissimo piano Rhodes e diversi amplificatori vintage), oltre che di elevata flessibilità, grazie alla suddivisione dello spazio in 4 ambienti acusticamente isolati dove i vari musicisti possono essere registrati anche in presa diretta senza interferire tra loro, ma rimanendo in contatto visivo attraverso le apposite vetrate insonorizzanti.

Adatto anche a gruppi di medio-grandi dimensioni (ha ospitato di recente una big-band jazz di una ventina di elementi).

Inoltre, il sodalizio con il John Barleycorn ha permesso a Stefano di mettere lo studio in comunicazione audio e video con il palco del locale, abilitando così una varietà di situazioni impensabile in una “music venue” convenzionale, e permettendo al pubblico in sala di osservare come si lavora in uno studio professionale e quindi come nasce un disco (esperienza bellissima, che difficilmente avreste la possibilità di fare altrove).

Uelà, una jam session

 

Uscendo dal tour dello studio, ho un’ulteriore gradita sorpresa.
Sul palco si stanno alternando musicisti per quella che in gergo si chiama una “jam session”: vari musicisti si ritrovano in un luogo attrezzato, e iniziano a suonare jazz in formazioni spesso improvvisate, senza una scaletta predefinita. Pratica molto diffusa dall’altra parte dell’oceano, un po’ meno qui da noi, perché bisogna che qualcuno glielo dia… lo spazio attrezzato.
Vengo a sapere che al JB questa è una consuetudine dei lunedì sera, una gran bella consuetudine direi.

A sentirli suonare, questi ragazzi, ti viene persino rabbia. Perché ti si palesa una realtà ben nota e scomoda: che esistono tanti musicisti con passione e tecnica da vendere ma – nella migliore delle ipotesi – con una visibilità molto circoscritta; e da qualche altra parte c’è chi con due note striminzite e un intero dipartimento marketing alle spalle fa parlare di se tutto il globo terracqueo. Noi di milanoincontemporanea tifiamo per i primi.

Paolo Venturini

Che vita sarebbe senza musica e... Milano. Da Milano mi ero allontanato alcuni anni, pentendomene perché mi mancava da morire, e adesso che sono tornato voglio recuperare il tempo perduto. La musica, almeno quella, me la sono portata sempre dietro. Fra le due c'è però una connessione profonda, creata dai luoghi e dalle persone, che amplifica il piacere di entrambe.
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