Al Blue Note come in un film, grazie a Benny Golson

Al Blue Note, l’emozione nel sentire e vedere a pochi metri una leggenda vivente del jazz come Benny Golson.

Questa volta ho il privilegio – ma anche il compito non banale – di provare a trasmettervi la solennità di un momento più unico che raro al Blue Note: l’emozione nel sentire e vedere a pochi metri da me una leggenda vivente del jazz come Benny Golson, uno che ha vissuto da protagonista gli anni rampanti del genere e che, alla bella età di 88 anni, è ancora in giro per il mondo a suonare.

Al Blue Note, Benny Golson: ecco chi è

Chi non conoscesse il nome di Benny Golson, forse avrà visto il film di Spielberg “The Terminal” del 2004, in cui il protagonista (Tom Hanks) si reca a NY per dare la caccia all’ultimo autografo jazz mancante alla collezione di suo padre, quello di Benny Golson appunto, che appare anche in un cameo nella parte di sé stesso.

Di quella generazione di grandi jazzisti non sono sopravvissuti in molti: lui, Sonny Rollins e pochissimi altri che si contano sulle dita di una mano.
Nell’immaginario collettivo, la figura del musicista dannato/drogato/alcolizzato/sbandato/violento/depresso appartiene al mondo del rock. Ma di fatto, ben prima che i vari Who, Stooges, Stones, Sex Pistols, Nirvana ecc. si appropriassero di questo stereotipo, i personaggi chiave del jazz anni ’50 e ’60 ci davano dentro alla stragrande con vite sregolate e abusi del proprio fisico.

Il risultato è che molti, troppi di loro sono prematuramente scomparsi per problemi di salute o di morte violenta. Se li vedi nelle foto di copertina dei dischi o nei filmati del periodo, elegantissimi e a modino, ti vien da dire “che brav fieu”; ma l’immagine nascondeva spesso un’esistenza piuttosto travagliata.

Benny Golson, a cui la creatività certo non difetta essendo uno dei più prolifici autori di classici del jazz (i cosiddetti “standard”), sembra invece la dimostrazione che “genio e regolatezza” può essere un binomio vincente.

Faccia a faccia con un’enciclopedia vivente del jazz

Per essere chiari: ad un concerto di Benny Golson non si va per sentire innovazione, ma per immergersi nella tradizione, che poi è una “innovazione riuscita”. La tradizione di quella corrente bop e sue derivate (hard bop, post bop ecc.) che ha affermato la musica afro-americana nel mondo, e dei tanti “standard” scritti da questo signore dagli anni ’50 in poi ed interpretati da centinaia di artisti.
A Benny piace molto parlare, e raccontare.
Si sofferma sui retroscena dei celebri pezzi da lui composti e proposti in scaletta stasera, rievocando prima le jam session di Philadelphia, poi le sue serate al Birdland di New York, e i tanti colleghi musicisti con cui suonò nelle due città: Philly Joe Jones, Lee Morgan, Clifford Brown, Max Roach, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Sonny Rollins,

©ROBERTO CIFARELLI

 

Devo andare avanti? Capite di che gente sto parlando? Praticamente è l’enciclopedia del jazz.
Benny elenca questi suoi amici come io potrei parlare dei miei compagni di classe del liceo. Con tono pacato, alla ispettore Colombo, minimizzando (“We were all amateur, you know” = “eravamo dilettanti, sapete”) e fingendo di dimenticarsi qualche nome (“Uhm… what was this guy’s name?” = “uhm… come si chiamava quel tizio?”).

Man mano che procede nei suoi racconti, vengo preso da una sensazione a metà fra l’esaltazione mistica e la sindrome di Stendhal.
Particolarmente toccante l’esecuzione di I remember Clifford, brano dedicato al leggendario trombettista Clifford Brown, morto giovanissimo ma non prima di aver esercitato una profonda influenza sui musicisti suoi contemporanei. Originale la chiusura sull’aria Va pensiero di Verdi.
E in effetti il pensiero va, altroché se va.

Poi via di altri standard superfamosi, da Killer Joe, a Whisper Not, a Blues March (quest’ultima eseguita come bis).
E anche un momento dedicato al pianista del quartetto, l’italianissimo Antonio Faraò, e a una sua composizione. Faraò meriterebbe un capitolo a sé, essendo ormai un artista di prima grandezza nella scena jazz mondiale, ma ubi maior

Al Blue Note di Milano, questa sera, sembra di essere a Manhattan

Benny Golson è il genere di musicista che definisce l’atmosfera canonica del Blue Note, che stasera è più blue-notiana che mai.

Penso che uscendo di qui troverò una fila di grossi taxi gialli, con il grasso rumore dei vecchi motori a 8 cilindri; alzando lo sguardo vedrò un cartello “1678 Broadway – 52nd St”, e dopo qualche passo mi cadrà l’occhio su un calendario appeso ad una vetrina che segnerà “March 30th, 1957”.

Poi mi sveglierò dal sogno, troverò – se sono fortunato – la mia fida Legnano legata ad un palo di Via Borsieri, e rincaserò pedalando fra i grattacieli, si, ma quelli di Porta Nuova (piutost che nient…).

Paolo Venturini

Che vita sarebbe senza musica e... Milano. Da Milano mi ero allontanato alcuni anni, pentendomene perché mi mancava da morire, e adesso che sono tornato voglio recuperare il tempo perduto. La musica, almeno quella, me la sono portata sempre dietro. Fra le due c'è però una connessione profonda, creata dai luoghi e dalle persone, che amplifica il piacere di entrambe.
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