Sons Of Kemet, recensione di un live di jazz contemporaneo a Milano

Sons Of Kemet, recensione di un live di jazz contemporaneo a Milano del nostro ‘Appaul’ che è tornato per noi nel locale più black di Milano!

Ed eccoci per la seconda volta in meno di un anno al cospetto di sua maestà Shabaka Hutchings, sassofonista e compositore fra i più richiesti nel panorama jazz (o giù di lì) contemporaneo.

Maestà non perché si dia arie da divo, affatto, ma perché con tutti i progetti che tira avanti in parallelo e un’agenda mondialmente sovraccarica, è un onore e un’emozione non da poco vedere Shabaka a 1 metro da te, nel tuo super-cozy abituale club.

Seconda volta, perché il nostro primo contatto fu al Teatro della Triennale in occasione del JazzMi, dove si presentava con una diversa formazione, gli Shabaka & The Ancestors, mentre oggi lo vediamo alla guida di un più piccolo gruppo dal nome Sons Of Kemet.

E dove, se non al Biko, il locale più black di Milano? Altro successo di Otta Capretti e di Ponderosa Music & Art che ce lo hanno portato.

Le particolarità dei Sons Of Kemet cominciano dall’originalità della formazione, che comprende ben due batterie (Tom Skinner e Eddie Hick), una tuba al posto del consueto contrabasso (Theon Cross) e ovviamente un sax tenore (Shabaka Hitchings).

Formazione dunque fortemente sbilanciata sul lato ritmico, priva di strumenti armonici – né chitarre, né piano, né tastiere – dalle sonorità asciutte e detonanti, a sottolineare l’ispirazione afro-tribale (più che afro-americana) del quartetto.

Eccezionale su disco, mi aspetto più di altrettanto dal vivo.
E poiché, come avrete capito, i Sons Of Kemet mi piacciono appena appena… questa sera sono il primo a entrare al Biko (piacevolmente dotato di aria condizionata, caratteristica apprezzabile in una serata che si prevede caliente sotto vari punti di vista) e faccio una bella foto ai due drum kit a riposo sul palco in attesa di essere suonati per le feste.

Questa attesa si fa un po’ più lunga del solito, a causa del gran numero di persone in coda per transitare dallo stretto corridoio di ingresso del Biko (NDR: gente, questo è un circolo ARCI, la tessera è obbligatoria e ci vuole qualche minuto a testa per farla; vi conviene muovervi in anticipo, tanto senza non vi fanno entrare!).

Appena saliti sul palco, i Sons Of Kemet, senza il benché minimo preambolo, attaccano una sequenza di brani che proseguirà ininterrotta, con crescente energia, fino alla fine del concerto e fino all’ultima goccia di sudore.

Parte ritmica: l’uso smodato dei tamburi e molto moderato dei piatti – assai diverso da uno stile percussivo jazz tradizionale – richiama immediatamente il continente nero. Il groove è di quelli che ti piglia e ti solleva da terra senza chiedere permesso: ogni singolo colpo di timpani, rullanti e casse si avverte netto nello sterno. Moltiplicate per due batteristi, e capirete da vicino l’effetto che fa.

Il suono greve e penetrante della tuba di Theon fa da mastice fra il sax di Shabaka e le percussioni di Eddie e Tom. Coraggiosa e determinante per il sound dei Sons Of Kemet è la scelta di non usare uno strumento a corde per la parte del basso, ma uno strumento a fiato; che in un certo senso ci riporta anche alle origini-igini-igini del jazz (le bande di New Orleans) ma in versione iper-vitaminica.

Parte melodica: le linee eseguite da Shabaka, semplici e immediatamente riconoscibili all’inizio, danno il via a furiosi crescendo con duetti sax-tuba, dove tutto si può meravigliosamente incasinare a piacere. Tanto sudore versato e tanta energia convogliata dentro qualche kilo di ottone, che sembra supplicare: “lasciatemi riposare un attimo!”.

Dentro tutto questo ci sono 3 continenti, precisione e passione, genio e regolatezza.
La pressione sonora e atmosferica si fa altissima, sento sul collo il fiato delle persone che riempiono ogni centimetro quadrato di Biko. Mi giro e osservo volti in stato di semi-esaltazione.

Comprensibilmente, perché se per caso hai avuto una giornata storta, stai pur tranquillo che un’esibizione dei Sons Of Kemet te la raddrizza in quattro e quattr’otto, convertendo tutto il letame che hai accumulato in energia certificata 100% green, anzi… black.

Paolo Venturini

Che vita sarebbe senza musica e... Milano. Da Milano mi ero allontanato alcuni anni, pentendomene perché mi mancava da morire, e adesso che sono tornato voglio recuperare il tempo perduto. La musica, almeno quella, me la sono portata sempre dietro. Fra le due c'è però una connessione profonda, creata dai luoghi e dalle persone, che amplifica il piacere di entrambe.
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