Blue Note Milano in Incognito: il calendario per jazzofili e la nostra recensione

Blue Note Milano in Incognito: il calendario per jazzofili

Stavo per esordire dicendo che il Blue Note di Via Borsieri, quartiere Isola a Milano, non ha bisogno di presentazioni… e invece un po’ si, se non altro per ricordare che è un privilegio ospitare nella propria città un locale di questa “catena” | di Paolo VENTURINI

Consideriamo prima di tutto che il Blue Note “padre” di New York insieme all’altrettanto celebre Village Vanguard si sono spartiti la quasi totalità degli artisti della golden age del jazz, quindi più che essere nella storia è la storia del jazz.

Aggiungiamo che, ad oggi, non tutte le città importanti del mondo hanno un Blue Note, anzi, neppure tutte le città super-importantissime ne hanno uno.
I locali a marchio Blue Note originale e certificato si contano esattamente sulle dita di una mano: 2 in USA (facile, giocano in casa) + 2 in Giappone + 1 a Milano = 5. Basta, finito, se trovate in giro altri posti con l’insegna blue note si tratta di cloni.

Al di là dell’orgoglio meneghino – ma non illudiamoci che l’abbiano messo qui solo perché ci considerano una città di jazzofili appartenenti ad una stirpe superiore – ci sono diversi motivi concreti per apprezzare questo locale, floridamente attivo dall’ormai lontano 2003, e che per lo scrivente è legato a ricordi irripetibili (come uno degli ultimi concerti del grande, iconico Jimmy Smith).

Questi motivi si possono a mio parere ricondurre a 3 aree:

  1. programmazione di eccellenza, ça va sans dire
  2. atmosfera unica, molto vicina a quella del capostipite newyorkese
  3. comfort per lo spettatore in tutti i sensi, con visuale sul palco e soprattutto qualità audio eccellente in qualunque parte del locale ci si trovi.

Vorrei evidenziare proprio quest’ultimo aspetto – la perfezione del suono – spesso messo in secondo piano e invece fattore fondamentale per un’esperienza live realmente coinvolgente. Agli appassionati di audio non sfuggirà.

Dunque al Blue Note ci si torna sempre volentieri, portafoglio permettendo (perché bisogna dirlo: tutto questo ha un prezzo premium, non allineato al bar sotto casa dove suona la cover band dei Pooh, ma la qualità si paga).

Questo mese avrei avuto almeno due pretesti ugualmente validi per tornarci: gli Incognito e il James Taylor Quartet. Ho scelto gli Incognito per motivi squisitamente altruistici: non avevo voglia di aspettare fino a fine gennaio per vedere i JTQ.

Incognito, Sabato 21, ore 23.30, ultimo set della loro permanenza a Milano

Gli Incognito, esplosi a livello mondiale nel periodo di moda dell’acid jazz ovvero nella prima metà degli anni ’90, esistono in realtà dal 1979 e non hanno mai smesso di fare musica, sebbene con formazioni mutanti nel tempo.

Come il leader e membro fondatore Jean-Paul Maunick ha precisato nel presentare la band durante il concerto: “none of these guys was born when I started the band in ’79”.

E i membri della band sono davvero tanti: 12 persone in tutto sul palco, di cui ben 3 vocalist, con un mix globale di nazionalità: Mauritius, Shri Lanka, Jamaica, Macao, Portogallo, Regno Unito, Irlanda, Tritad Tobago e – ebbene si – Italia (il miracoloso batterista!).

Il risultato è un grande impatto sonoro, un autentico wall of sound (altro che Phil Spector). In effetti la musica degli Incognito, funk-soul jazzato e molto energico, si apprezza più dal vivo che su disco. Purtroppo i loro album più conosciuti, essendo stati registrati nei primi ’90, risentono dello stile di produzione “plasticosetto” di quegli anni e oggi suonano un po’ datati.

Dimenticatevi tutto questo dal vivo, dove ottoni, chitarre wah wah, clavinet, fender rhodes, valanghe di percussioni, e performance canore a 3 voci irrorano la sala di un sound tutt’altro che clinico. Oltre ad essere dei grandi performer, con assoli da standing ovation, gli Incognito sanno come coinvolgere il pubblico; anche quello di 40enni non proprio da centro sociale del Blue Note (oh, senza offesa per nessuno, io di anni ne ho 46) e anche a costo di ricorrere a qualche ruffianata scontata del tipo: “Is it true you like to sing, Milano?!”.

Momenti top, per me: l’esecuzione a tre voci di “Still a Friend of Mine” dall’album “Positivity” (1993) e la cover di “Don’t You Worry ‘Bout a Thing” di Stevie Wonder dall’immenso “Innervisions” (chi per distrazione non lo avesse corra a comprarlo, per favore).

Sta di fatto che 2 ore di concerto sono volate. Caspita, 2 ore! Oltre tempo massimo per il Blue Note, forse perché essendo il set finale e non avendo vincoli di orario volevano chiudere in bellezza, con tanto di bis, tris, e sermone finale di Jean-Paul Maunick sul potere della musica e su quanto è bello svegliarsi al mattino e vedere il sole. Beh, magari, io prendo il treno per andare al lavoro alle 7.30 ed è ancora buio, ma sul potere della musica concordo appieno.

 

Programmazione Blue Note 2017

www.bluenotemilano.com/programmazione/

Photocredit Claudio Romani

Paolo Venturini

Che vita sarebbe senza musica e... Milano. Da Milano mi ero allontanato alcuni anni, pentendomene perché mi mancava da morire, e adesso che sono tornato voglio recuperare il tempo perduto. La musica, almeno quella, me la sono portata sempre dietro. Fra le due c'è però una connessione profonda, creata dai luoghi e dalle persone, che amplifica il piacere di entrambe.
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